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Santi del 30 Settembre

Il mio Santo > I Santi di Settembre

*Sant'Amato di Nusco - Vescovo (30 settembre)

Nusco, 1003 ca. - 30 settembre 1093
Originario di Nusco, in Irpinia, tra le valli dell'Ofanto e del Calore, Amato nasce intorno al 1003. Figlio di in una famiglia benestante del luogo, diventa sacerdote in giovane età. Nel 1048 è il primo vescovo della città, consacrato dal pastore di Salerno Alfano I. Restaura ed edifica alcune chiese nel centro irpino, abitato fin dall'epoca longobarda.
Affida ai Benedettini il monastero di Santa Maria in Fondigliano, a 5 chilometri da Nusco (che verrà poi soppresso nel 1460), e, dopo aver devoluto i suoi beni alla Chiesa, muore il 30 settembre 1093. Numerosi i miracoli e le guarigioni avvenuti sul sepolcro del santo.
Un fatto che fece sì che il suo successore, Ruggero, gli dedicasse una chiesa. Eletto patrono della città di Nusco è invocato contro i terremoti, calamità naturale ricorrente dei monti irpini. (Avvenire)
Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: Presso Nusco in Campania, Sant’Amato, vescovo.
Pur non essendo abbastanza antica (1461), la sua ‘Vita’ fu scritta da Francesco da Ponte, essa non è molto attendibile.
Amato nacque a Nusco, il terzo Comune più alto della provincia di Avellino (mt. 914), che sorge su un monte isolato della catena appenninica irpina, tra le valli dell’Ofanto e del Calore e per la sua
posizione panoramica è definito “balcone dell’Irpinia”.
La sua nascita avvenne intorno al 1003, in una famiglia benestante, divenne sacerdote molto giovane e nel 1048 sarebbe stato consacrato primo vescovo della città, dall’arcivescovo di Salerno Alfano I.
Nusco abitata già in epoca molto antica, si sviluppò probabilmente in epoca longobarda, presso un castello, attorno al quale sant’Amato vescovo, raggruppò gli abitanti dei villaggi del circondario.
Restaurò ed edificò alcune chiese, tra cui la cattedrale dedicata al protomartire S. Stefano; fece di tutto per soccorrere i poveri, affidò ai Benedettini il monastero di S. Maria in Fondigliano, posto a 5 km da Nusco e soppresso poi nel 1460, e dopo aver devoluto i suoi beni alla Chiesa, morì il 30 settembre 1093.
Sul suo sepolcro avvennero numerose guarigioni, che gli procurarono il culto di santo, il suo successore Ruggero gli dedicò per questo una chiesa.
Dopo aver dimostrato l’autenticità del suo testamento, si è potuto fissare al 30 settembre 1093 la data della sua morte, in contrasto con l’opinione dei monaci benedettini di Montevergine (AV), che volendolo classificare ad ogni costo, come discepolo del loro fondatore San Guglielmo da Vercelli (1085-1142), non esitarono a spostare la data della sua morte al 31 agosto 1193, quindi 100 anni dopo.
Patrono della città di Nusco è invocato contro i terremoti, calamità naturale ricorrente dei monti irpini. Il “Martirologio Romano” lo celebra al 30 settembre.
(Autore: Antonio Borrelli – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Sant'Amato di Nusco, pregate per noi.

*Sant'Antonino di Piacenza (30 settembre)

Etimologia: Antonino (come Antonio) = nato prima, o che fa fronte ai suoi avversari, dal gre
Martirologio Romano: A Piacenza, Sant’Antonino, martire.
Le fonti per lo studio della vita di Antonino sono relativamente tarde: il più antico documento che ci conosca, conservato nell'Archivio della basilica di Sant'Antonino in Piacenza, è il Gesta Sanctorum
Antonini, Victoris, Opilii et Gregorii PP. X, che risale alla fine del IX o agli inizi del X sec., e che narra abbastanza sobriamente la storia della sua vita e delle sue reliquie. Gli studiosi posteriori hanno attinto a questa fonte cercando di accertarne, per quanto possibile, i dati.
É indubitata l'esistenza del santo, già ricordato da Vittricio di Rouen nel suo De laude Sanctorum della fine del sec. IV, e nel Martirologio Geronimiano. Incerte storicamente sono le circostanze della vita di Antonino: ignoto il paese di origine e certamente leggendaria la sua appartenenza alla legione tebea.
Una tradizione locale pone il martirio di A. nei pressi di Travo (Piacenza), verso il 303. Il ritrovamento delle sue reliquie (sec. IV), ad opera diSan.
Savino vescovo di Piacenza, è tramandato in un alone di leggenda; ma innumeri privilegi nel corso del Medioevo confermano la esistenza e il culto di esse. Ricognizioni delle reliquie furono compiute dai vescovi Sigifredo (ca. il 1000), Malabaila (1510), Bernardino Scotti (1562), Paolo Burali d'Arezzo (1569), Claudio Rangoni (1615) e, infine, va ricordata que]la accuratissima compiuta nel 1878-79 dal servo di Dio, mons. Giovanni Battista Scalabrini.
Per molto tempo si è attribuita ad Antonino una relazione di un viaggio in Terra Santa, più volte pubblicata nel corso del Medioevo e del Rinascimento. Tuttavia J. Gildemeister nel 1889 ne ha potuto reperire la redazione originale in due manoscritti del sec. IX.
Da questo esordio e dalle indicazioni storiche e archeologiche contenute nella relazione, tutte riferendosi a un periodo attorno al 570, appare chiaro che il viaggio ai Luoghi Santi fu compiuto da
un gruppo di cittadini di Piacenza, che si erano posti sotto la protezione del santo della città. La relazione, quindi, è da ascriversi non ad Antonino ma ad un Anonimo Piacentino, certamente uno dei pellegrini, che al ritorno volle fissare i suoi ricordi di viaggio.
Il culto antichissimo, attestato già nel secolo che segue la morte del Santo, è sempre stato ed è tuttora assai vivo nella città e nella diocesi di Piacenza, che lo ha scelto come patrono assieme a s. Giustina, consacrandogli la prima cattedrale,
L'insigne basilica di Sant'Antonino, sorta nel sec. IV e dedicata a San Vittore, e in seguito rifatta nei secc. IX e XI. Molte altre chiese della diocesi di Piacenza hanno Antonino come titolare.
Nella liturgia piacentina gli sono consacrate due feste: quella principale il 4 luglio col rito di prima classe, e quella del 13 novembre, giorno della invenzione delle sue reliquie, con rito di seconda classe.
Nel Martirologio Geronimiano Antonino è festeggiato al 30 settembre, data che sembra riferirsi al suo natale.
Da Piacenza il culto si è diffuso in molte diocesi d'Italia e della Gallia.
Nel giorno della festa del 4 luglio i reggenti del comune di Piacenza si recano ufficialmente nella basilica di Sant'Antonino a portare due ceri di omaggio della città.
(Autore: Guido Tammi – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Sant'Antonino di Piacenza, pregate per noi.

*Sant'Eusebia (30 settembre)

m. 497 circa
Martirologio Romano: A Marsiglia nella Provenza in Francia, Santa Eusebia, vergine, che servì Dio fedelmente dalla gioventù alla vecchiaia.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Sant'Eusebia, pregate per noi.

*Beato Federico Albert - Sacerdote e Fondatore (30 settembre)

Torino, 16 ottobre 1820 – Lanzo Torinese, 30 settembre 1876
Martirologio Romano: Nel villaggio di Lanzo vicino a Torino, Beato Federico Albert, sacerdote: da parroco, fondò la Congregazione delle Suore di San Vincenzo de’ Paoli dell’Immacola Concezione per assistere in ogni modo i più poveri.
Un’altra grande figura della santità, fiorita nell’Ottocento, nella città di Torino, che pur essendo nominata come crocevia di un ipotetico satanismo, ha invece dato alla Chiesa e al mondo cattolico numerosi Santi, Beati e Venerabili, che hanno onorato proprio Torino con il frutto delle loro Opere
sociali, assistenziali, fondazioni di Ordini e Congregazioni religiose.
E fra questi annoveriamo il Beato Federico Albert che a Torino nacque il 16 ottobre 1820, primo dei sei figli di Lucia Riccio e del generale Luigi Albert, dello Stato Maggiore del Regno Sabaudo. Si sa che trascorse l’infanzia presso i nonni materni, ma si ignora dove frequentò la scuola elementare.
Raggiunto i 15 anni, la famiglia era convinta che fosse inclinato alla carriera militare, quindi suo padre si attivò per farlo ammettere all’Accademia militare di Torino.
Improvvisamente però avvenne una svolta nella vita del giovane Federico, perché un giorno mentre stava pregando nella chiesa di San Filippo, presso l’altare del Beato Sebastiano Valfré (1629-1710) oratoriano di Torino, sentì l’ispirazione di diventare sacerdote.
Il padre sorpreso e nel contempo contrariato, non oppose però difficoltà e così a 16 anni, nell’autunno del 1836, Federico Albert indossò l’abito talare, incominciando la sua formazione religiosa presso il clero della Chiesa degli Oratoriani; nel contempo per la sua formazione culturale si iscrisse alla Facoltà Teologica presso la Regia Università di Torino, laureandosi in teologia il 19 maggio 1843; il successivo 10 giugno fu ordinato sacerdote.
Per la posizione del padre e per le sue spiccate doti sacerdotali, fu segnalato all’attenzione della Corte Sabauda e così nel 1847, il re Carlo Alberto lo nominò Cappellano di Corte; padre Federico Albert esercitò quest’Ufficio senza isolarsi dalle necessità apostoliche esterne alla Corte, e quindi nel contempo si interessò a sollevare i bisogni dei poveri e derelitti, che a Torino come in tutta Italia, erano numerosi in quell’epoca.
Il tempo in cui visse alla Corte dei Savoia, fu difficile per i rapporti fra Stato e Chiesa, che specie in Piemonte, fulcro del Risorgimento Italiano, furono abbastanza traumatici, mettendo a dura prova molti cattolici.
Padre Albert usò tutta la coerenza e il tatto possibile, offrendo anche suggerimenti in linea con il Vangelo, meritando perfino la stima del sovrano Vittorio Emanuele II e dei suoi familiari.
Ma la sua insoddisfazione per non poter esercitare a tempo pieno il suo ministero sacerdotale, gli fece lasciare l’incarico a Corte e si presentò a San Giovanni Bosco, che in quegli anni rivoluzionava a Torino, la catechesi e l’istruzione giovanile.
Don Bosco l’accolse tra i suoi collaboratori e gli diede l’incarico nel 1848, di predicare gli Esercizi spirituali ai giovani dell’Oratorio di Valdocco. Ancora per due anni dal 1850 al 1852 si dedicò al ministero presso la parrocchia di San Carlo; nel 1852 ebbe l’incarico di vicario e poi come parroco a Lanzo Torinese.
In quel periodo il paese di Lanzo aveva già una notevole attività commerciale, per il suo mercato diventato il centro dell’alta valle ma anche dei paesi della pianura canavese, ma non aveva ancora un’industria e quindi la sua economia era piuttosto debole; padre Albert fece diventare Lanzo Torinese, il centro delle istituzioni scolastiche e sociali dell’alta e bassa valle.
Il suo programma di parroco è racchiuso nella scritta, che fece porre nell’atrio della casa parrocchiale “Il Buon Pastore dà la vita per le sue pecorelle” e che professò fino alla morte. Fondò l’asilo infantile nel 1858 affidandolo alle Suore di Carità; nel 1859 fondò l’Orfanotrofio per le fanciulle abbandonate e nel 1866 realizzò l’educandato femminile con la scuola elementare, con corsi di francese, di disegno, di musica e per la preparazione a diventare maestre.
La sua opera ebbe grande diffusione e apprezzamento, perché a quell’epoca, specie nei centri rurali era impedito alle ragazze di accedere all’istruzione; nel 1864 si adoperò affinché San Giovanni Bosco aprisse a Lanzo un Oratorio, che poi diventò un Collegio per i ragazzi.
In campo pastorale indisse le missioni per il popolo, a cui dedicava tutto sé stesso, giorno e notte; grande predicatore tenne varie volte gli esercizi spirituali per il clero e per i laici. Alla fine nel 1869, per assicurare la continuità delle sue opere educative, padre Albert fondò l’Istituto delle “Suore Vincenzine di Maria Immacolata” oggi conosciute come “Suore Albertine”; fondate per un’urgenza di carità locale e secondo le forme di apostolato del tempo, oggi eseguono il loro ‘servizio’
nei veri campi dell’educazione, istruzione, assistenza, dovunque possono arrivare, senza aspettare iter burocratici.
Rifiutò le proposte di diventare vescovo delle diocesi di Biella e di Pinerolo, per rimanere accanto alle sue opere parrocchiali. Sulla scia della “questione operaia” esplosa in Italia in quel periodo, padre Albert capì l’importanza di aprire una “questione contadina” e nel 1873 fondò una Colonia Agricola per formare agricoltori onesti, religiosi ed esperti.
E fu proprio nelle adiacenze della Colonia Agricola, che padre Federico Albert, perse la propria vita in un incidente, perché cadde da un’impalcatura montata provvisoriamente, per applicare dei festoni alla volta della Cappella, che aveva fatto erigere per l’Oratorio parrocchiale.
Cadde da sette metri d’altezza, battendo fortemente la testa; trasportato dai soccorritori nella casa parrocchiale, ci si rese conto subito della gravità del suo stato; gli furono amministrati gli ultimi sacramenti e al suo capezzale accorse anche San Giovanni Bosco, che era in visita all’Istituto Salesiano di Lanzo; padre Albert morì due giorni dopo, la mattina del 30 settembre 1876.
Sepolto inizialmente nel cimitero di Lanzo, fu traslato nel 1877 nella Cappella del Cuore di Maria, nella chiesa parrocchiale di San Pietro in Vincoli. È stato beatificato da Papa Giovanni Paolo II il 30 settembre 1984.
(Autore: Antonio Borrelli – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Federico Albert, pregate per noi.

*Beata Felicia Meda - Suora (30 settembre)

Sec. XV
Martirologio Romano: A Pesaro, Beata Felicia Meda, badessa dell’Ordine delle Clarisse.
Quando la Duchessa di Pesaro, moglie di Galeazzo Malatesta, volle fondare nella sua città un nuovo convento di suore Clarisse, si rivolse a San Bernardino da Siena, che era allora, verso il 1439, vicario generale dei Francescani Osservanti.
Ma la richiesta che la nobildonna pesarese fece al grande predicatore senese era assai specifica, per non dire esplicita. Per guidare la nuova fondazione ella infatti non chiedeva una clarissa qualsiasi, per esemplare e virtuosa che ella fosse.
Voleva che il nuovo convento fosse affidato esclusivamente a Felicia Meda, milanese, clarissa francescana nel convento di Sant'Orsola.
La fama di questa religiosa era dunque corsa per il mondo, anche abbastanza lontano dalla città nella quale era nata, e nonostante il naturale silenzio che circonda, di solito, la vita di una suora di clausura.
Né risulta, del resto, che Felicia Meda avesse compiuto, prima o dopo di allora azioni clamorose o gesti risonanti, tali da dare fama, o almeno notorietà, al suo nome.
San Bernardino da Siena non ebbe difficoltà a convincere la suora a lasciare Milano per Pesaro, con
altre sette consorelle, per lavorare alla nuova fondazione voluta dalla Duchessa Malatesta. Felicia obbedì prontamente al Superiore, anche se le costò un certo dolore allontanarsi ormai anziana dalla città dove era sempre vissuta, circondata da un affetto vivissimo.
Nata più di sessant'anni prima, nel 1378, ella era stata la maggiore di tre figli, restati presto orfani per la morte dei genitori. Prima di diventare " madre " delle altre suore, Felicia era stata perciò, con molto anticipo sui tempi della crescita naturale, giudiziosa mammina di un fratello e di una sorella minori, alla cui cura dedicò la propria giovinezza.
A dodici anni aveva già fatto voto di santità, consacrando il suo corpo a Dio. Ma soltanto dopo i vent'anni, esaurito il suo compito di vice-madre, era entrata in religione presso le Clarisse di Sant'Orsola. Prima di far ciò, lasciò tutti i suoi beni alla sorella, al fratello e ai poveri.
Il suo esempio fu così contagioso che presto anche la sorella la seguì tra le Clarisse, mentre il fratello diventava frate francescano.
Dopo venticinque anni di vita religiosa, contraddistinta da un'estrema regolarità e rigorosità, e dalla continua vittoria su spossanti tentazioni, era diventata Superiora del convento di Sant'Orsola, che divenne sotto di lei modello di virtù e di pietà.
Se ne staccò, come abbiamo visto, soltanto per recarsi a Pesaro, in obbedienza. E quando, con le sette consorelle, giunse nella città dei Malatesta, invano la Duchessa le si fece incontro con la sua carrozza. Felicia Meda rifiutò di salirvi, ed entrò a Pesaro a piedi, camminando fino al nuovo monastero in mezzo all’ammirazione devota di una grande folla.
La stessa ovazione popolare si ripeté quattro anni dopo, alla sua morte, nel 1444, quando il popolo di Pesaro l'acclamò come Santa, attribuendole numerosi miracoli.
(Fonte: Archivio Parrocchia)
Giaculatoria - Beata Felicia Meda, pregate per noi.

*San Francesco Borgia - Sacerdote (30 settembre)

Gandia, Spagna, 28 ottobre 1510 - Roma, 30 settembre 1572
Nato nel 1510 a Gandia, in Spagna, fu paggio presso la Corte di Carlo V.
Si sposò con Eleonora de Castro da cui ebbe otto figli. Nonostante gli impegni che la carica di Viceré della Catalogna comportava, non tralasciò di condurre una vita spirituale intensa.
Morta la moglie, entrò nella Compagnia di Gesù e, divenuto sacerdote, alternò la predicazione alla scrittura di trattati spirituali.
Rinunciò alla carica di cardinale ma accettò gli incarichi importanti per la Compagnia, come quello di Commissario Generale.
Sue caratteristiche furono l'umiltà, la mortificazione e una grande devozione all'Eucarestia e alla Vergine.
Fondatore delle prime missioni dell'America Latina spagnola, vigilò sullo spirito originale dei gesuiti.
Morì nel 1572. (Avvenire)

Etimologia: Francesco = libero, dall'antico tedesco
Martirologio Romano: A Roma, San Francesco Borgia, sacerdote, che, morta la moglie, dalla quale aveva avuto otto figli, entrò nella Compagnia di Gesù e, lasciati gli onori terreni e rifiutati quelli ecclesiastici, eletto preposito generale, restò celebre per austerità di vita e spirito di preghiera.
Francesco Borgia, nato in Spagna nel 1510, smentì la mala fama che la propria potente famiglia si era acquistata in epoche precedenti.
Infatti, pur avendo posizione mondana elevata e vita pubblica movimentata, egli riuscì a raggiungere, attraverso disparate vicende, la pienezza di una santità priva di ogni sospetto.
Il padre volle fare di lui un perfetto uomo di mondo, schernendo le sue inclinazioni religiose.
E il ragazzo imparò le norme cavalleresche, ma studiò anche la filosofia; maneggiò le armi, ma non trascurò i libri; fu paggio presso la Corte imperiale, ma si fece terziario francescano.

La sua carriera fu brillante e movimentata.
Era benvoluto da Isabella di Portogallo e dal marito Carlo V, il potentissimo Imperatore sui cui Regni " non tramontava mai il sole".
Egli lo nominò marchese di Lombai; ella gli dette in sposa Leonora di Castro, dalla quale ebbe otto figli.
Fu eletto Gran Cavallerizzo dell'Imperatore e Grande Scudiero dell'Imperatrice.
L'erede, Filippo 11, lo ebbe come amico e confidente. Viaggiava in portantina, leggendo però San Paolo e Giovanni Crisostomo. Impartiva lezioni di cosmografia all'Imperatore, che poi accompagnò in una guerra contro i Francesi.
Ammalatosi e creduto in punto di morte, quando guarì prese l'abitudine alla Confessione e alla Comunione frequenti.
Fu spinto verso una maggiore chiarezza spirituale dalla perdita della protettrice, l'Imperatrice Isabella, e dalla vista del suo volto decomposto dalla morte.
Trovò allora una saggia e sicura guida spirituale nel Beato Giovanni d'Avila.
Proprio in quel tempo giungeva al culmine della sua carriera, con la nomina a Viceré di Catalogna.
Per quattro anni si adoperò faticosamente per mutar volto a quella provincia, inquieta e ribelle, perché povera e mal governata.
E quando, nominato Gran Maggiordomo e Consigliere di Stato, avrebbe potuto godere tranquillamente l'alta posizione, ritirandosi nel suo Ducato di Gandia, Ia morte dell'ancor giovane moglie lo spinse a quel passo che pose fine in modo imprevisto alla sua fortunata vicenda mondana.
Entrò nella Compagnia fondata da pochi anni dal conterraneo Ignazio di Loyola, e nel 1548 pronunziò i voti solenni. Considerando la sua eccezionale personalità, il Papa gli permise di restare nel mondo, per occuparsi dei figli del suo Ducato.
Ma due anni dopo, Francesco Borgia rinunciò solennemente ai beni e alle cariche.
Avrebbe aspirato ad una vita ritirata e contemplativa, ma era una carta troppo importante per il giovane Ordine.
Per obbedienza, accettò perciò gli incarichi più laboriosi e impegnativi, e non deluse le speranze che la Compagnia riponeva in lui.
Con la sua saggezza, l'ammirazione di cui godeva, e l'aiuto di doni soprannaturali, Francesco Borgia contribuì all'espansione europea, anzi mondiale, della Compagnia di Gesù, preparando il rinnovamento cattolico della seconda metà del secolo.
Fu terzo Generale della Compagnia dopo Sant'Ignazio.
Ne rinnovò le Costituzioni e ne fissò le pratiche spirituali. A Roma, fondò i principali Istituti dell'Ordine in rapido accrescimento.  
E viaggiò infaticabilmente fino alla vigilia della morte, venerato ambasciatore di carità e di concordia, autorevole consigliere di Imperatori, Re e Principi, per tornare finalmente a morire nella sua cella romana, nel 1572, riscattando il nome della famiglia dei Borgia con una gloria senza confini.

(Fonte: Archivio Parrocchia)
Giaculatoria - San Francesco Borgia, pregate per noi.

*Beato Giovanni Nicola (Jean-Nicolas) Cordier - Sacerdote Gesuita, Martire (30 Settembre)
Scheda del gruppo a cui appartiene:

“Beati Martiri dei Pontoni di Rochefort - 64 martiri della Rivoluzione Francese”

Saint-André, Francia, 3 dicembre 1710 – Rochefort, Francia, 30 settembre 1794

Martirologio Romano: Sulla costa francese nel mare antistante Rochefort, Beato Giovanni Nicola Cordier, sacerdote e martire, che, dopo la soppressione della Compagnia di Gesù, svolse il suo ministero sacerdotale nel territorio di Verdun, finché, nel corso della rivoluzione francese, gettato perché sacerdote in una galera ferma all’ancora, morì malato di letale inedia.
Papa Giovanni Paolo II beatificò il 1° ottobre 1995 un gruppo di 64 martiri morti durante la Rivoluzione Francese, vittime delle sofferenze patite per la fede, noti quali “Martiri dei pontoni di
Rochefort”.
Sulla vecchia imbarcazione “Washington”, ancorata nella regione de La Rochelle, furono imprigionati e morirono parecchi sacerdoti e religiosi cattolici fedeli alla Santa Sede.
Patirono sofferenze e vessazioni terribili a causa della loro fede e morirono in seguito ai maltrattamenti subiti.
Ben 285 sopravvissuti furono invece liberati il 12 febbraio 1795 e, tornati ai loro paesi, lasciarono testimonianze scritte dell’eroico esempio dei loro compagni, permettendo così l’avvio dei processi per la loro beatificazione.
Il Martyrologium Romanum, che commemora i martiri singolarmente o in gruppo a seconda dell’anniversario del martirio, pone in data odierna la festa del Beato Jean-Nicolas Cordier.
Questi, nato a Saint-André il 3 dicembre 1710, fu sacerdote professo gesuita, ma alla soppressione della Compagnia di Gesù esercitò il suo ministero presso Verdun in Lorena al servizio della vita consacrata, sostenendo e guidando specialmente le monache.
Catturato dai rivoluzionari, terminò i suoi giorni imprigionato al largo di Rochefort il 30 settembre 1794.

(Autore: Fabio Arduino – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Giovanni Nicola Cordier, pregate per noi.

*San Girolamo (o Gerolamo) - Sacerdote e Dottore della Chiesa (30 Settembre)

Stridone (confine tra Dalmazia e Pannonia), ca. 347 - Betlemme, 420
Fece studi e enciclopedici ma, portato all'ascetismo, si ritirò nel deserto presso Antiochia, vivendo in penitenza.
Divenuto sacerdote a patto di conservare la propria indipendenza come monaco, iniziò un'intensa attività letteraria.
A Roma collaborò con Papa Damaso, e, alla sua morte, tornò a Gerusalemme dove partecipò a numerose controversie per la fede, fondando poco lontano dalla Chiesa della Natività, il monastero in cui morì.
Di carattere focoso, soprattutto nei suoi scritti, non fu un mistico e provocò consensi o polemiche, fustigando vizi e ipocrisie.
Scrittore infaticabile, grande erudito e ottimo traduttore, a lui si deve la Volgata in latino della Bibbia, a cui aggiunse dei commenti, ancora oggi importanti come quelli sui libri dei Profeti.

Patronato: Archeologi, Bibliotecari, Studiosi
Etimologia: Girolamo = di nome sacro, dal greco
Emblema: Cappello da cardinale, Leone
Martirologio Romano: Memoria di San Girolamo, sacerdote e dottore della Chiesa: nato in Dalmazia, nell’odierna Croazia, uomo di grande cultura letteraria, compì a Roma tutti gli studi e qui fu battezzato; rapito poi dal fascino di una vita di contemplazione, abbracciò la vita ascetica e, recatosi in Oriente, fu ordinato sacerdote.
Tornato a Roma, divenne segretario di Papa Damaso e, stabilitosi poi a Betlemme di Giuda, si ritirò a vita monastica.
Fu dottore insigne nel tradurre e spiegare le Sacre Scritture e fu partecipe in modo mirabile delle varie necessità della Chiesa. Giunto infine a un’età avanzata, riposò in pace.
San Girolamo è un Padre della Chiesa che ha posto al centro della sua vita la Bibbia: l’ha tradotta nella lingua latina, l’ha commentata nelle sue opere, e soprattutto si è impegnato a viverla concretamente nella sua lunga esistenza terrena, nonostante il ben noto carattere difficile e focoso ricevuto dalla natura.
Girolamo nacque a Stridone verso il 347 da una famiglia cristiana, che gli assicurò un’accurata formazione, inviandolo anche a Roma a perfezionare i suoi studi.
Da giovane sentì l'attrattiva della vita mondana (cfr Ep. 22,7), ma prevalse in lui il desiderio e l'interesse per la religione cristiana. Ricevuto il battesimo verso il 366, si orientò alla vita ascetica e, recatosi ad Aquileia, si inserì in un gruppo di ferventi cristiani, da lui definito quasi «un coro di beati» (Chron. Ad ann. 374) riunito attorno al Vescovo Valeriano.
Partì poi per l'Oriente e visse da eremita nel deserto di Calcide, a sud di Aleppo (cfr Ep. 14,10), dedicandosi seriamente agli studi.
Perfezionò la sua conoscenza del greco, iniziò lo studio dell'ebraico (cfr Ep. 125,12), trascrisse codici e opere patristiche (cfr Ep. 5,2).
La meditazione, la solitudine, il contatto con la Parola di Dio fecero maturare la sua sensibilità cristiana.

Sentì più pungente il peso dei trascorsi giovanili (cfr Ep. 22,7), e avvertì vivamente il contrasto tra mentalità pagana e vita cristiana: un contrasto reso celebre dalla drammatica e vivace "visione", della quale egli ci ha lasciato il racconto.
In essa gli sembrò di essere flagellato al cospetto di Dio, perché «ciceroniano e non cristiano» (cfr Ep. 22,30).
Nel 382 si trasferì a Roma: qui il Papa Damaso, conoscendo la sua fama di asceta e la sua competenza di studioso, lo assunse come segretario e consigliere; lo incoraggiò a intraprendere una nuova traduzione latina dei testi biblici per motivi pastorali e culturali.
Alcune persone dell’aristocrazia romana, soprattutto nobildonne come Paola, Marcella, Asella, Lea ed altre, desiderose di impegnarsi sulla via della perfezione cristiana e di approfondire la loro conoscenza della Parola di Dio, lo scelsero come loro guida spirituale e maestro nell’approccio metodico ai testi sacri.
Queste nobildonne impararono anche il greco e l’ebraico.
Dopo la morte di Papa Damaso, Girolamo lasciò Roma nel 385 e intraprese un pellegrinaggio, dapprima in Terra Santa, silenziosa testimone della vita terrena di Cristo, poi in Egitto, terra di elezione di molti monaci (cfr Contra Rufinum 3,22; Ep. 108,6-14).
Nel 386 si fermò a Betlemme, dove, per la generosità della nobildonna Paola, furono costruiti un monastero maschile, uno femminile e un ospizio per i pellegrini che si recavano in Terra Santa, «pensando che Maria e Giuseppe non avevano trovato dove sostare» (Ep. 108,14).
A Betlemme restò fino alla morte, continuando a svolgere un'intensa attività: commentò la Parola di Dio; difese la fede, opponendosi vigorosamente a varie eresie; esortò i monaci alla perfezione; insegnò la cultura classica e cristiana a giovani allievi; accolse con animo pastorale i pellegrini che visitavano la Terra Santa.
Si spense nella sua cella, vicino alla grotta della Natività, il 30 settembre 419/420.
La preparazione letteraria e la vasta erudizione consentirono a Girolamo la revisione e la traduzione di molti testi biblici: un prezioso lavoro per la Chiesa latina e per la cultura occidentale.
Sulla base dei testi originali in greco e in ebraico e grazie al confronto con precedenti versioni, egli attuò la revisione dei quattro Vangeli in lingua latina, poi del Salterio e di gran parte dell'Antico Testamento.
Tenendo conto dell'originale ebraico e greco, dei Settanta, la classica versione greca dell’Antico Testamento risalente al tempo precristiano, e delle precedenti versioni latine, Girolamo, affiancato poi da altri collaboratori, poté offrire una traduzione migliore: essa costituisce la cosiddetta "Vulgata", il testo "ufficiale" della Chiesa latina, che è stato riconosciuto come tale dal Concilio di Trento e che, dopo la recente revisione, rimane il testo "ufficiale" della Chiesa di lingua latina.
É interessante rilevare i criteri a cui il grande biblista si attenne nella sua opera di traduttore.
Li rivela egli stesso quando afferma di rispettare perfino l’ordine delle parole delle Sacre Scritture, perché in esse, dice, "anche l’ordine delle parole è un mistero" (Ep. 57,5), cioè una rivelazione.
Ribadisce inoltre la necessità di ricorrere ai testi originali: «Qualora sorgesse una discussione tra i Latini sul Nuovo Testamento, per le lezioni discordanti dei manoscritti, ricorriamo all'originale, cioè al testo greco, in cui è stato scritto il Nuovo Patto.
Allo stesso modo per l'Antico Testamento, se vi sono divergenze tra i testi greci e latini, ci appelliamo al testo originale, l'ebraico; così tutto quello che scaturisce dalla sorgente, lo possiamo ritrovare nei ruscelli» (Ep. 106,2).
Girolamo, inoltre, commentò anche parecchi testi biblici.
Per lui i commentari devono offrire molteplici opinioni, «in modo che il lettore avveduto, dopo aver
letto le diverse spiegazioni e dopo aver conosciuto molteplici pareri – da accettare o da respingere –, giudichi quale sia il più attendibile e, come un esperto cambiavalute, rifiuti la moneta falsa» (Contra Rufinum 1,16).
Confutò con energia e vivacità gli eretici che contestavano la tradizione e la fede della Chiesa.
Dimostrò anche l'importanza e la validità della letteratura cristiana, divenuta una vera cultura ormai degna di essere messa confronto con quella classica: lo fece componendo il De viris illustribus, un'opera in cui Girolamo presenta le biografie di oltre un centinaio di autori cristiani.
Scrisse pure biografie di monaci, illustrando accanto ad altri itinerari spirituali anche l'ideale monastico; inoltre tradusse varie opere di autori greci.
Infine nell'importante Epistolario, un capolavoro della letteratura latina, Girolamo emerge con le sue caratteristiche di uomo colto, di asceta e di guida delle anime.
Che cosa possiamo imparare noi da San Girolamo? Mi sembra soprattutto questo: amare la Parola di Dio nella Sacra Scrittura.
Dice San Girolamo: "Ignorare le Scritture è ignorare Cristo".
Perciò è importante che ogni cristiano viva in contatto e in dialogo personale con la Parola di Dio, donataci nella Sacra Scrittura.
Questo nostro dialogo con essa deve sempre avere due dimensioni: da una parte, dev'essere un dialogo realmente personale, perché Dio parla con ognuno di noi tramite la Sacra Scrittura e ha un messaggio ciascuno.
Dobbiamo leggere la Sacra Scrittura non come parola del passato, ma come Parola di Dio che si rivolge anche a noi e cercare di capire che cosa il Signore voglia dire a noi.
Ma per non cadere nell'individualismo dobbiamo tener presente che la Parola di Dio ci è data proprio per costruire comunione, per unirci nella verità nel nostro cammino verso Dio.
Quindi essa, pur essendo sempre una Parola personale, è anche una Parola che costruisce comunità, che costruisce la Chiesa.
Perciò dobbiamo leggerla in comunione con la Chiesa viva.
Il luogo privilegiato della lettura e dell'ascolto della Parola di Dio è la liturgia, nella quale, celebrando la Parola e rendendo presente nel Sacramento il Corpo di Cristo, attualizziamo la Parola nella nostra vita e la rendiamo presente tra noi. Non dobbiamo mai dimenticare che la Parola di Dio trascende i tempi.
Le opinioni umane vengono e vanno. Quanto è oggi modernissimo, domani sarà vecchissimo.
La Parola di Dio, invece, è Parola di vita eterna, porta in sé l'eternità, ciò che vale per sempre.
Portando in noi la Parola di Dio, portiamo dunque in noi l'eterno, la vita eterna.
E così concludo con una parola di San Girolamo a San Paolino di Nola.
In essa il grande Esegeta esprime proprio questa realtà, che cioè nella Parola di Dio riceviamo l'eternità, la vita eterna.
Dice San Girolamo: «Cerchiamo di imparare sulla terra quelle verità la cui consistenza persisterà anche nel cielo» (Ep. 53,10).

Autore: Papa Benedetto XVI (Udienza generale 14 Novembre 2007)
Con quest’uomo intrattabile hanno un debito enorme la cultura e i cristiani di tutti i tempi. Ha litigato con sprovveduti, dotti, santi e peccatori; fu ammirato e detestato.
Ma rimane un benefattore delle intelligenze e la Chiesa lo venera come uno dei suoi padri più grandi.
Nato da famiglia ricca, riceve il battesimo a Roma, dove va a studiare.
Studierà per tutta la vita, viaggiando dall’Europa all’Oriente con la sua biblioteca di classici antichi, sui quali si è formato.
Nel 375, dopo una malattia, Gerolamo passa alla Bibbia, con passione crescente.
Studia il greco ad Antiochia; poi, nella solitudine della Calcide (confini della Siria), si dedica all’ebraico.
Riceve il sacerdozio ad Antiochia nel 379 e nel 382 è a Roma.
Qui, Papa Damaso I lo incarica di rivedere il testo di una diffusa versione latina della Scrittura, detta Itala, realizzata non sull’originale ebraico, bensì sulla versione greca detta dei Settanta.
A Roma fa anche da guida spirituale a un gruppo di donne della nobiltà.
E intanto scaglia attacchi durissimi a ecclesiastici indegni (un avido prelato riceve da lui il nome “Grasso Cappone”.
Alla morte di Damaso I (384), va in Palestina con la famiglia della nobile Paola.
Vive in un monastero a Betlemme, scrivendo testi storici, dottrinali, educativi e corrispondendo con gli amici di Roma con immutata veemenza.
Perché così è fatto.
E poi perché, francamente, troppi ipocriti e furbi inquinano ora la Chiesa, dopo che l’imperatore Teodosio (ca. 346-395) ha fatto del cristianesimo la religione di Stato, penalizzando gli altri culti.
Intanto prosegue il lavoro sulla Bibbia secondo l’incarico di Damaso I.
Ma, strada facendo, lo trasforma in un’impresa mai tentata.
Sente che per avvicinare l’uomo alla Parola di Dio bisogna andare alla fonte. E così, per la prima  volta, traduce direttamente in latino dall’originale ebraico i testi protocanonici dell’Antico Testamento.
Lavora sulla pagina e anche sul terreno, come dirà: "Mi sono studiato di percorrere questa provincia (la Giudea) in compagnia di dotti ebrei".
Rivede poi il testo dei Vangeli sui manoscritti greci più antichi e altri libri del Nuovo Testamento.
Gli ci vorrebbe più tempo per rifinire e perfezionare l’enorme lavoro.
Ma, così come egli lo consegna ai cristiani, esso sarà accolto e usato da tutta la Chiesa: nella Bibbia di tutti, Vulgata, di cui le sue versioni e revisioni sono parte preponderante, la fede è presentata come nessuno aveva fatto prima dell’impetuoso Gerolamo.
E impetuoso rimane, continuando nelle polemiche dottrinali con l’irruenza di sempre, perfino con Sant’Agostino, che invece gli risponde con grande amabilità.
I suoi difetti restano, e la grandezza della sua opera pure. Gli ultimi suoi anni sono rattristati dalla morte di molti amici, e dal sacco di Roma compiuto da Alarico nel 410: un evento che angoscia la sua vecchiaia.

(Autore: Domenico Agasso – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Girolamo, pregate per noi.

*San Gregorio Illuminatore - Vescovo, Apostolo degli Armeni (30 Settembre)
257 - 332

Gregorio l'Illuminatore è l'apostolo degli Armeni, nazione che si convertì al cristianesimo nel 301.
Nato nel 260 circa scampò a una strage della sua famiglia e venne educato alla fede dalla nutrice. Vicino al re Tiridate, si rifiutò però di sacrificare agli dèi pagani, come egli voleva. Fu imprigionato.
Poi Tiridate, malato, lo liberò e ne venne guarito.
Così la nazione divenne cristiana. Morì nel 328. Alcune reliquie sono nella chiesa di San Gregorio Armeno a Napoli, nell'omonima via, celebre per i presepi. Altre a Nardò e Costantinopoli.
La più importante è il braccio destro, con cui in Armenia si benedice il nuovo Katholikos. (Avvenire)

Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: In Armenia, san Gregorio, detto l’Illuminatore, vescovo, che dopo grandi fatiche si ritirò in una grotta alla confluenza dei rami del fiume Eufrate e qui riposò in pace, dopo essersi guadagnato la fama di apostolo degli Armeni.
A Napoli, nel centro storico vi è una strada ormai celebre in tutti gli itinerari turistici, specie in periodo natalizio, per la produzione, esposizione e vendita dei “pastori” e minuterie per il presepe, firmate anche da famosi artigiani; questa strada è via S. Gregorio Armeno, il titolo proviene dalla chiesa intitolata allo stesso Santo che si trova a metà percorso, antichissima testimonianza della presenza di monaci orientali dal 930, rifatta nel 1580 con grandi applicazioni barocco-orientali.
Nella stessa chiesa oltre che una parte delle reliquie del santo è conservato anche il corpo di Santa Patrizia, veneratissima dal popolo napoletano, la chiesa e l’attiguo convento con artistico chiostro è tenuto dai primi anni del millenovecento dalle Suore Crocifisse Adoratrici dell’Eucaristia.
San Gregorio nacque in Armenia nel 260 circa, scampò alla strage della sua famiglia ordinata dal re armeno Kosrov e allevato da una nutrice cristiana che lo portò a Cesarea di Cappadocia, educato
cristianamente sposò un’altra cristiana Giulitta da cui ebbe due figli Aristakes e Verdanes, divenuti poi tutti e due Santi.
Ordinato sacerdote a Cesarea entrò nel seguito del principe ereditario dell’Armenia Tiridate, in esilio dopo la morte violenta del padre Kosrov.
Dopo la vittoriosa campagna di Galerio contro i persiani (297) cui aveva partecipato anche Tiridate, l’imperatore Diocleziano poté reintegrare sul trono armeno con l’aiuto delle sue legioni il principe Tiridate, Gregorio lo seguì con tutto il seguito, ma quando questi volendo festeggiare il suo ritorno in una solenne cerimonia volle offrire l’incenso alla dea Anahita, il cui famoso santuario era ad Eriza (Erzincan) sul loro percorso, Gregorio rifiutò di farlo e pertanto fu imprigionato e torturato.
Ebbe ben quattordici specie di torture, una più crudele dell’altra, infine Tiridate lo fece rinchiudere in un celebre carcere della capitale chiamato Khor Virap (pozzo profondo) dove rimase per ben quindici anni dal 298 al 313 mentre infuriava la persecuzione contro i cristiani. La conversione dell’Armenia al cristianesimo ebbe luogo in seguito ad una miracolosa guarigione dello stesso re Tiridate; avendo fatto uccidere la vergine Hripsime insieme ad altre compagne cristiane, egli si ammalò di tristezza perché se ne era innamorato, ma lei non aveva acconsentito, la sua malattia viene descritta come una trasformazione in cinghiale come capitò al re Nabucodonosor, si può dedurre che si trattasse di licantropia.
Nell’afflizione generale della corte, la sorella del re sognò che l’incarcerato Gregorio avrebbe potuto guarirlo, liberato e condotto a corte egli risanò il re ed esortò lui ed i principi ad accettare la religione cristiana catechizzandoli per sei mesi e ottenendone la conversione, al punto che il re fece distruggere gli idoli e abolì il paganesimo.
Nel contempo Gregorio trasformò i templi in chiese erigendo altari e croci, rimandando però la loro consacrazione come pure il battesimo del re, perché lui non era un vescovo. Per questo motivo Tiridate e i principi lo elessero come pastore supremo dell’Armenia e lo accompagnarono con una foltissima schiera di cavalieri fino a Cesarea di Cappadocia per ricevere la consacrazione dalle mani del vescovo della metropoli Leonzio, il quale convocato il Sinodo di Cesarea (314) cui parteciparono venti vescovi, lo consacrò con grande gioia e festa di tutti i convenuti e del popolo, per lui e per la conversione dell’Armenia.
Nel viaggio di ritorno vi fu uno scontro armato con la città ancora pagana di Astisat dove Gregorio prese possesso dell’antica sede vescovile vacante a causa delle persecuzioni; sulle sponde dell’Eufrate egli battezzò molti principi e soldati e lo stesso re, sua moglie e sua sorella, che gli erano venuti incontro.
Gregorio organizzò la rinascita della Chiesa armena consacrando e mandando nuovi vescovi e sacerdoti nelle rinate diocesi, i suoi due figli Aristakes e Vertanes, rimasti a Cesarea furono chiamati presso il padre ad aiutarlo, sebbene riluttanti perché dediti alla via d’anacoreta, Aristakes
fu nominato suo ausiliare e quando Gregorio alternando il suo ufficio di vescovo con periodi di ritiro in eremitaggio, lo sostituiva nel governo della diocesi, ma egli morì prima del padre, mentre il fratello Vertanes successe nell’incarico dopo la morte di Gregorio.
La "Vita" racconta anche di un viaggio di Gregorio fatto insieme a Tiridate a Roma per far visita all’imperatore Costantino e nell’occasione si incontrò anche con papa Silvestro da cui si racconta ebbe il privilegio del titolo di patriarca d’Oriente. La Chiesa armena pur tra tante vicissitudini e persecuzioni, l’ultima quella del regime sovietico, è sempre stata fedele a Roma donando alla Chiesa figure di santi e martiri e una fede genuina in un contesto molto influenzato ed osteggiato dalle Chiese ortodosse.
Gregorio morì all’incirca nell’anno 328 mentre era in un eremo e fu sepolto in un suo podere a Thordan, villaggio della regione di Daranalik’
Il suo nome viene spesso ricordato nelle preghiere liturgiche e durante la santa Messa, la Chiesa armena dedica al suo santo “Illuminatore” tre feste liturgiche.
Nel calendario marmoreo di Napoli scolpito nel IX sec. il suo nome compare al 2 e 3 dicembre, le sue reliquie sono sparse un po’ in tutti i luoghi che maggiormente lo venerano, il cranio è a Napoli, altre a Nardò, alcune stavano a Costantinopoli ma la più celebre “il braccio destro di Gregorio” è in Armenia e con essa viene benedetto ogni ‘Katholicos’ eletto.

(Autore: Antonio Borrelli – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Gregorio Illuminatore , pregate per noi.

*Sant'Ismidone di Die - Vescovo (30 settembre)

Martirologio Romano: A Die in Francia, Sant’Ismidone, vescovo, che, mosso dall’amore per i luoghi Santi, fece per due volte un pio pellegrinaggio a Gerusalemme.
Ismidone, morto nel 1115, fu ben presto onorato come santo, se ne celebrò la festa il 28 settembre e la chiesa in cui fu deposto - distrutta poi nel 1567 dagli Ugonotti che bruciarono anche le spoglie di Ismidone - prese il suo nome. Non si conservano, peraltro, Vitae antiche di questo santo vescovo. La prima delle sue biografie è costituita dalle lezioni dell’Ufficio che gli dedica il Breviarium Diense del 1523. G. Stilting, inoltre, ha compilato per gli Acta SS. un’utile Sylloge (1688) e più tardi, Ulisse Chevalier ha potuto tracciare, con l’aiuto di documenti abbastanza numerosi, un profilo biografico che è stato poi utilizzato dagli autori posteriori (1888).
Ismidone, nato, secondo quanto dice l’Ufficio, nel castello di Sassenage, presso Grenoble, ricevette a Valence una solida istruzione. Divenne in seguito canonico di Lione, grazie, senza dubbio, alla protezione del famoso arcivescovo Ugo, antico vescovo di Die. Nel 1097 in seguito alla rinuncia del vescovo Ponzio, Ismidone divenne a sua volta vescovo della modesta diocesi di Die durante gli anni successivi, in ogni occasione egli apparve come l’uomo di fiducia dell’arcivescovo legato Ugo di Lione, di cui, peraltro, non era suffragalo.
Nel 1099 si recò a Roma per difendere con successo i diritti della primazia lionese. Nel 1100 assisté Ugo al concilio di Anse e fu suo portavoce a quello di Poitiers. Nel 1101, infine, lo accompagnò a Roma e a Gerusalemme.
Ismidone fu più volte designato dal papa e dal legato come arbitro in controversie tra varie chiese dei regni di Francia e di Borgogna: La Chartreuse S. Benigno di Digione, La Chaise-Dieu, Aniane Domène, Cruas, Bordeaux. Si ha notizia di donazioni di chiese da lui fatte ai Canonici Regolari di Oulx e di Saint-Ruf, affermando in tali occasioni la sua predilezione per questa forma di vita in comune. Ratificò anche l’atto di Josserand di Langres che stabiliva i Canonici Regolari a santo Stefano di Digione.
Nell’ottobre 1114, Ismidone ricevette a Die l’abate Ponzio di Cluny, che si recava a Roma; è questa l’ultima data in cui si fa menzione di Ismidone: infatti, all’inizio del settembre 1116 il suo successore, il vescovo Pietro, era già in carica.
Si deve quindi riportare al 1115 la sua morte, ricordata al 30 settembre dall’obituario della Chiesa di Lione con queste parole: «Ismio bone memorie, Diensis episcopus et canonicus Sancti Stephani, qui dedit Sancto Stephano annulum aureum cum pretiosissima gemma».
Dal 1128 il vescovo Stefano di Die menziona quale suo secondo predecessore sanctus Umido. Verso il 1180 Goffredo di Hautecombe, nella sua Vita di San Pietro di Tarantasia, annovera Ismidone tra i prelati che, all’inizio del secolo, resero illustre la Savoia e il Delfinato, insieme a sant'Ugo di Grenoble e sant'Antelio di Belley. I documenti contemporanei, anche se troppo poco espliciti, mettono tuttavia in luce il ruolo di pacificatore sostenuto così spesso dal santo vescovo.
Secondo l’espressione di Chevalier, citata da B. Bligny, Ismidone fu per la sua diocesi «una gloria più dolce» di quanto non fosse stato il legato Ugo, suo maestro.
(Autore: Bernard de Vregille - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Sant'Ismidone di Die, pregate per noi.

*Sant'Onorio di Canterbury - Vescovo (30 settembre)

Etimologia: Onorio = stimato, glorioso, dal latino
Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: A Canterbury nel Kent in Inghilterra, Sant’Onorio, vescovo, che, monaco romano, fu mandato dal Papa San Gregorio Magno ad evangelizzare l’Inghilterra come compagno di sant’Agostino, al quale succedette poi nell’episcopato.
Monaco del monastero di Sant'Andrea al Celio a Roma, Onorio fu inviato da Papa Gregorio Magno (590-604) come missionario in Inghilterra, ma non si sa se vi andò con Sant'Agostino o con il secondo gruppo di missionari italiani (Mellito, Giusto, ecc.). Dopo la morte di Giusto (10 novembre 627), fu consacrato quinto vescovo di Canterbury a Lincoln da san Paolino (v.) vescovo di York, il quale aveva di recente convertito la Northumbria.
Nel 633 quando Paolino dovette fuggire dopo la vittoria (12 ottobre) a Hatfield (presso Doncaster) del re pagano Panda e del suo alleato re Cadwalla del Galles, su Edvino, re di Northumbria, Onorio gli diede rifugio a Canterbury; più tardi gli chiese di assumere la sede di Rochester, allora vacante, dove Paolino morì nel 644.
Contemporaneamente, e su richiesta di re Edvino, Papa Onorio I (625-638), aveva concesso il pallio nel 634 "ai due metropoliti Onorio e Paolino"; ed in una lettera dell'11 giugno 644 ad Onorio il Papa ripeteva ciò che aveva già scritto a Edvino e cioè che gli arcivescovi di Canterbury e di York dovevano essere uguali e che "qualora la misericordia di Dio" chiamerà a sé uno di voi, colui che sopravviverà avrà l'autorità di nominare un vescovo al suo posto".
Quando Paolino morì nel 644, quindi, Sant'Itmaro (il primo anglosassone ad essere fatto vescovo) fu regolarmente consacrato da Onorio. Della vita privata di Onorio si sa ben poco; l'avvenimento più importante del suo episcopato fu, forse, l'invio di San Felice di Dunwich a predicare il Vangelo nell'Estanglia dove Felice stabili la sua sede a Dunwich sulla costa del Suffolk nel 631. Quando Felice mori nel 648 Onorio consacrò il suo successore Tommaso.
Morì il 30 aprile e la sua festa si celebra il 30 settembre; egli ha avuto un culto almeno dall'anno 1000 quando il suo nome appare nei Calendari della Christ Church e di Sant'Agostino a Canterbury.
(Autore: Leonard Boyle – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Sant'Onorio di Canterbury, pregate per noi.

*Santa Rachele - Seconda moglie di Giacobbe (30 settembre - 24 Dicembre)

Paddan-Aram (Mesopotamia) - † Efrata (Betlemme, Palestina)
Rachele il cui nome in ebraico significa “pecorella”, compare nella Bibbia nel Libro della Genesi al capitolo 29.
Giacobbe dopo aver messo in atto l’inganno di presentarsi al posto di suo fratello maggiore Esaù, al loro padre Isacco, per carpirgli la benedizione del patriarca, che sarebbe toccata al suo fratello primogenito, suscitò così l’ira di questi, per cui per salvarlo fu mandato dai genitori Isacco e Rebecca, nella terra di Paddan-Aram, nella casa di Betel, padre di Rebecca e di Labano suo fratello.
Non era solo per allontanarlo finché la situazione non si fosse calmata, ma anche per fargli trovare una moglie tra i parenti della terra d’origine di sua madre, perché gli era proibito prendere in sposa una donna di Canaan, onde evitare un matrimonio misto fra il suo clan e il popolo indigeno o hittita.
Così Giacobbe partì con la benedizione di Isacco, verso Carrar città d’origine di Abramo, Isacco e Rebecca, posta nella fertile e pianeggiante regione di Paddan-Aram.
In una tappa notturna, mentre dormiva ebbe il famoso sogno della scala che congiungeva la terra al cielo e percorsa da angeli.
Giunse poi alla sua meta e si fermò ad un pozzo nella steppa, dove vi erano adunate attorno ad esso tre greggi di pecore per abbeverarsi, ma i pastori erano in attesa di altri uomini, affinché tutti insieme potessero far rotolare la pesante pietra dalla bocca del pozzo.
Mentre Giacobbe chiedeva informazioni sui parenti che doveva raggiungere, ecco avvicinarsi la figlia di suo zio Labano, la giovane Rachele che conduceva le pecore all’abbeveratoio; al vedere quella che i pastori presenti indicarono come sua cugina Rachele, egli ne fu subito conquistato per la sua bellezza.
Fortificato da ciò, con grande sforzo spostò lui la pietra che otturava il pozzo e così le pecore di suo zio e dei presenti poterono abbeverarsi. Seguì il riconoscimento reciproco dei due cugini, lo scambio di un bacio, lo sgorgare di una lacrima, poi Rachele scappò a casa da suo padre Labano e riferirgli dell’incontro.
Labano saputo dell’arrivo di suo nipote Giacobbe, figlio di sua sorella Rebecca, gli andò incontro, l’abbracciò e lo condusse a casa sua, dove dimorò per un mese.
A questo punto bisogna fare una riflessione; quanto detto finora di Giacobbe, sembra ricalcare episodio per episodio, la storia di suo padre Isacco, per il quale fu mandato da Abramo nella casa di Betel, un servo fidato per trovargli moglie, anche qui l’incontro con la giovane Rebecca, avvenne presso un pozzo, luogo privilegiato per il raduno, gli incontri e i contratti di matrimonio.
Ritornando a Giacobbe, suo zio Labano offrendogli un lavoro presso di sé, stipulò con lui un regolare contratto di lavoro, le cui condizioni furono dettate dallo stesso Giacobbe.
Egli attratto dalle virtù di Rachele, seconda figlia di Labano, la chiese in sposa e secondo la prassi orientale, che considerava la donna un bene di famiglia, offrì il suo lavoro per sette anni per ‘riscattarla dalla famiglia’ di appartenenza, facendola diventare così “sua”.
L’amore che Giacobbe nutriva per Rachele, fece sembrare quel lungo periodo come pochi giorni; al termine dei sette anni egli chiese a Labano di potersi unire a Rachele e fu organizzato un banchetto.
A sera ci fu il colpo di scena inatteso; secondo l’uso la sposa veniva condotta dallo sposo nella tenda nuziale, completamente velata nell’oscurità della notte e così fu in quell’occasione.
La mattina dopo Giacobbe si accorse che la sposa non era Rachele, ma sua sorella maggiore Lia non della stessa bellezza, datagli da Labano con un inganno; alle rimostranze di Giacobbe, il padre delle ragazze cercò di giustificarsi, evocando un’usanza locale, cioè quella di sposare per prima la figlia maggiore, appunto Lia.
Con questo episodio, Giacobbe fu ripagato allo stesso modo, come aveva ingannato Isacco per ottenere la benedizione della primogenitura al posto di suo fratello Esaù, così fu vittima anche lui di un raggiro, operato proprio da un parente più furbo di lui.
Labano gli disse allora: “Finisci la settimana nuziale di costei, poi ti darò anche quest’altra, per il servizio che tu presterai presso di me per altri sette anni”.
In effetti l’uso della poligamia era ampiamente praticato nell’antico Vicino Oriente; a Giacobbe non restò che accettare, quindi nuova settimana nuziale e il suo lungo sogno si poté avverare “si accostò a Rachele e l’amò più di Lia”.
Iniziò così una relazione a tre con le inevitabili tensioni; lo scrittore del sacro testo si è preoccupato che la giustizia fosse assicurata, Lia trascurata era però feconda, Rachele amata era però sterile.
Lia partorì quattro figli Ruben, Simeone, Levi, Giuda, le cui tribù divennero celebri. Era normale che Rachele diventasse gelosa della sorella Lia per i figli che dava a Giacobbe, mentre lei non poteva e afflitta gridò al marito la sua disperazione: “Dammi dei figli se no muoio”, a ciò Giacobbe reagì duramente, ricordandole che la vita è un dono divino.
L’afflizione esagerata di Rachele, si spiega considerando che a quei tempi, la donna era vista soprattutto come generatrice di figli e quindi di braccia per i duri lavori dei campi e dell’allevamento di mandrie e greggi.
Poi Rachele ricorse alla possibilità di generare per interposta persona secondo l’uso orientale, quindi offrì a Giacobbe la propria schiava Bila, cosicché potesse avere un figlio tramite di lei, questo diciamo stratagemma, era già accaduto con Sara moglie sterile di Abramo e la schiava Agar, dalla quale nacque Ismaele, generato dalla schiava ma considerato figlio della moglie Sara.
Dalla schiava Bila, ricevé così due figli prima Dan e poi Neftali; a questo punto il racconto biblico assume un tono abbastanza ironico per la nostra mentalità, le due mogli di Giacobbe furono in piena gara a dare dei figli al futuro patriarca che orami era in età matura.
Lia, visto che Giacobbe non si accostava più a lei perché non l’amava, prese la sua schiava Zilpa e allo stesso modo di Rachele, l’offrì al marito per avere altri figli; in questo modo la schiava Zilpa generò Gad e poi Aser.
Venne il tempo della mietitura del grano, e Ruben figlio primogenito di Lia, trovò delle mandragore (pianta velenosa a cui erano attribuite proprietà guaritrici della sterilità) e le portò alla madre.
Rachele saputo ciò, indusse Lia sua sorella, a cedergliele e in cambio concesse che Giacobbe trascorresse un’altra notte con lei.
Questo Giacobbe sballottato da una donna all’altra, ci fa sorridere considerando che i suoi atti d’amore, dovevano essere utilizzati per soddisfare esigenze generazionali delle due mogli, anche attraverso le due schiave; sembra quasi un sultano nel suo harem, ma qui egli non sceglie, ma gli viene imposta una donna di volta in volta.
A Lia quindi nacque un quinto figlio, Issacar e poi ancora un sesto Zabulon e inoltre una figlia, Dina.
Dice la Bibbia che a questo punto Dio “si ricordò” di Rachele, la esaudì e la rese feconda; essa concepì e partorì un figlio e lo chiamò Giuseppe.
Conclusasi la storia delle madri e dei loro figli, ritorna nel racconto biblico della Genesi, la figura di Labano, padre di Lia e Rachele, presso il quale Giacobbe era stato ormai per una ventina d’anni, lavorando sodo per lui; poi subentrò il desiderio di tornarsene con la famiglia a Canaan, nella sua terra d’origine.
Ora avvennero altri episodi che non riguardano Rachele e perciò tralasciamo, soffermandoci solo su quelli in cui ormai sporadicamente compare.
Deciso a lasciare la casa di Betel e Labano, Giacobbe convocò le due mogli ed espose il suo progetto di lasciare quelle terre di Mesopotamia e ritornare a Canaan, anche perché i rapporti con Labano loro padre, erano cambiati e diventati più difficili.
Rachele e Lia risposero acconsentendo, giacché il loro padre l’aveva trattate come straniere, vendendole e mangiandosi la loro dote. Prima di partire di nascosto, Rachele volle prendere gli idoletti che appartenevano al padre (sorta di statuette forse indicanti le divinità familiari, oppure il possesso di esse sanciva un diritto all’eredità; non è stato chiarito), per portarseli con sé nella terra sconosciuta dove stava recandosi, come segno di protezione o di memoria del suo passato.
Ancora s’incontra Rachele al capitolo 31, quando avendo Labano raggiunto la carovana di Giacobbe, partito a sua insaputa, dopo aver rimproverato il genero di portar via da lui le figlie e i nipoti, lo accusò di aver rubato i “terafini” dalla sua casa.
L’ignaro Giacobbe lo invitò a guardare nelle tende per assicurarsi che non c’erano, giunto alla tenda di Rachele, questa l’aveva nascosti nella sella del cammello e vi si era seduta sopra.
All’entrata del padre, lei si scusò di non potersi alzare perché indisposta, “come avviene regolarmente alle donne”; così Labano si ritirò non trovando niente.
Rachele, Lia, le schiave e i loro figli furono poi presenti all’incontro riconciliatore di Giacobbe con Esaù suo fratello, dal quale si era allontanato per sfuggire alla sua ira, tanti anni prima.
Infine nel capitolo 35 della Genesi, si narra del percorso itinerante per trovare un luogo adatto per stabilirsi; la tribù di Giacobbe arrivò in prossimità di Efrata e qui a Rachele incinta per la seconda volta, si presentò un parto difficile e nonostante tutti gli sforzi e pur avendo salvato il bambino, Rachele morì, qualche minuto prima diede il nome a suo figlio, Ben-Oni che Giacobbe muterà in Beniamino.
Fu sepolta lungo la strada verso Efrata, identificata con Betlemme e sulla sua tomba Giacobbe eresse una stele; ancora oggi all’ingresso di Betlemme, esiste un piccolo mausoleo dedicato a Rachele e la sua tomba è meta di pellegrinaggio degli ebrei.
Poi Giacobbe raggiunse suo padre Isacco, che visse fino all’età di 180 anni e fu sepolto dai due figli Esaù e Giacobbe.
I figli maschi del patriarca Giacobbe furono dodici: I figli di Lia, Ruben il primogenito, Simeone, Levi, Giuda, Issacar e Zebulon; i figli di Rachele, Giuseppe e Beniamino; i figli della schiava Bila, Dan e Neftali; i figli della schiava Zilpa, Gad ed Aser; inoltre è menzionata la figlia Dina avuta da Lia.
I figli di Rachele e della sua schiava Bila iniziarono l’allevamento degli ovini, mentre i figli di Lia e della sua schiava Zilpa diedero origine agli allevamenti di bovini.
La continuità del lungo percorso del ‘popolo della salvezza’, passerà poi alla discendenza di Giuseppe, figlio di Rachele, il quale non era certamente il primogenito fra i figli del patriarca; quindi ancora una volta Dio è presente nella storia d’Israele, che conduce con il suo imperscrutabile disegno; disegno tanto più evidente se si pensa che le ultime tre donne, Sara, Rebecca, Rachele, madri, mogli e nonne di patriarchi, erano tutte sterili e poi per volere di Dio, concepirono nella vecchiaia un figlio divenuto erede della discendenza.
Quindi anche Rachele fa parte del grande programma di Dio e come tale anch’essa è considerata persona santa e oggi con tutti gli antenati di Gesù, uomini e donne, giusti e fedeli alla legge divina, viene ricordata con loro il 24 dicembre; per antica tradizione era venerata da sola il 30 settembre. È patrona delle madri che hanno perso un figlio; il nome è molto diffuso fra gli ebrei ma anche fra gli inglesi (Rachel), in Russia è Raissa, in Italia portò tale nome la moglie di Benito Mussolini.
(Autore: Antonio Borrelli – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Santa Rachele, pregate per noi.

*San Simone di Crepy - Monaco (30 settembre)

m. 1082
Essendo conte di Crépy in Francia, rinunciò a tutte le ricchezze, per condurre una vita monastica e posteriormente farsi eremita nel Macico do Jura.
Martirologio Romano: A Roma, San Simone, monaco, che, già conte di Crépy in Francia, rinunciando alla patria, al matrimonio e a tutti i suoi averi, scelse di ritirarsi a vita prima monastica e poi eremitica sul massiccio del Giura; chiamato spesso a intervenire come legato per riconciliare tra loro i principi in guerra, morì a Roma e fu sepolto presso San Pietro.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Simone di Crepy, pregate per noi.

*Santa Sofia (Sonia) - Martire (30 settembre)

Etimologia: Sofia = sapienza, saggezza, dal greco
Emblema: Palma
Santa Sofia è venerata insieme alle figlie Pistis, Elpis, Agape, nomi greci che tradotti sono Sapienza, Fede, Speranza, Carità.
Tutte e quattro martiri sotto Traiano; la più antica notizia sulla loro esistenza e venerazione risale alla fine del sec. VI, come autore il presbitero Giovanni, il quale raccolse gli olii sui sepolcri dei martiri romani al tempo di San Gregorio Magno (590-604); egli dice, in contraddizione, che esse erano venerate sulla via Aurelia con nomi greci e sulla via Appia con nomi latini.
E questo alternarsi di conoscenza e citazioni và avanti nei secoli successivi, una volta coi nomi greci e una volta coi nomi latini.
Al tempo di Papa Paolo I (760), i corpi delle Sante martiri, sepolte sulla via Aurelia furono trasferiti nella chiesa di San Silvestro in Campo Marzio.

I loro nomi furono inseriti al 1° agosto nel Martirologio di Usuardo, mentre nel 1500 il Baronio li inserisce nel Martirologio Romano ma dividendole: le tre figlie al 1° agosto e la madre al 30 settembre.
Qualche studioso mette in dubbio l’esistenza reale delle quattro Sante, volendo inserirle invece come figure allegoriche delle virtù di cui portavano il nome.
Nell’arte hanno avuto un loro spazio abbastanza importante sia in Oriente che in Occidente, in particolare per quanto riguarda Santa Sofia che come già detto significa Sapienza Divina, a lei furono intitolate specie in Oriente le più belle e grandi chiese tra cui Santa Sofia di Costantinopoli, Santa Sofia di Salonicco, Santa Sofia di Bulgaria; queste grandi e bellissime realizzazioni dell’arte bizantina erano rivolte non tanto alla figura della santa ma a ciò che lei impersonava cioè la Sapienza Divina.
Il culto della madre e delle tre simboliche figlie Fede, Speranza, Carità è sopravvissuto anche lì
dove il Cristianesimo ha subito gli eventi storici come Costantinopoli, Kiev, Novograd, Salonicco dove le grandi chiese intarsiate di mosaici, di troni, corone, scettri d’oro tempestati di gemme, sono ancora oggi visibili.
In Occidente questa regina si è trasformata in una pietosa matrona che protegge le sue figlie sotto il suo mantello, proprio come certe belle raffigurazioni della Madonna della Misericordia, mentre le giovani martiri tengono in mano lo strumento del loro martirio (fornace, clava).
Fede ha le mani giunte in preghiera.
Il nome Sofia derivante dal greco Sophia (Sapienza) si diffuse in Occidente prendendo in Russia e Bulgaria il nome di Sonia poi anch’esso diffusosi in Europa.
(Autore: Antonio Borrelli – Fonte:Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Santa Sofia, pregate per noi.

*Santi Urso e Vittore - Martiri della Legione Tebea (30 settembre)
m. Soleure (Svizzera), fine III secolo

I Santi Urso e Vittore sono ritenuti dalle fonti più antiche gli unici soldati della Legione Tebea scampati all’eccidio di Agauno (odierna Saint-Maurice in Svizzera) e come tali ricordati anche dal nuovo Martyrologium Romanum. Giunti presso la vicina località svizzera di Soleure furono raggiunti ed anch’essi decapitati in odio alla fede cristiana, secondo alcune fonti con altri 66 compagni.
Patronato: Soleure (Sant’Urso) e Ginevra (San Vittore)
Emblema: Palma, Spada, Stendardo, Croce Maurizian
Martirologio Romano: A Solothurn nell’odierna Svizzera, Santi Orso e Vittore, martiri, che si dice appartenessero alla Legione Tebea.
In data odierna il nuovo Martyrologium Romanum cita “A Soleure in Svizzera, ricordo dei Santi Urso e Vittore, martiri, che si dice abbiano fatto parte della Legione Tebea”. Se è pur vero che i due Santi non abbiano mai goduto di una particolare popolarità, va comunque tenuto in considerazione
che sono da annoverare tra i pochissimi martiri tebei già citati da fonti abbastanza antiche, gli unici che il nuovo martirologio abbia ritenuto opportuno indicare quale distaccamento della celebre “Angelica Legio”.
Per meglio comprendere l’origine del culto di questi intrepidi testimoni della fede cristiana, occorre dunque ripercorrere brevemente la vicenda della Legione Tebea, alla quale la pietà popolare ha sempre riservato una particolare devozione, spinta forse dalle svariate leggende sorte intorno ad essa.
Sempre il nuovo Martyrologium Romanum cita al 22 settembre il gruppo principale di questo glorioso esercito, capeggiato da San Maurizio: “A Saint-Maurice-en-Valais in Svizzera, ricordo dei Santi martiri Maurizio, Essuperio, Candido, soldati, che, come narra Sant’Eucherio di Lione, con i loro compagni della Legione Tebana e il veterano Vittore, nobilitarono la storia della Chiesa con la loro gloriosa passione, venendo uccisi per Cristo sotto l’imperatore Massimiano”. Seppur sinteticamente sono così ben riassunte le poche certezze che danno un fondamento storico al vasto culto che l’ha avuto in Europa in particolare sui molteplici versanti alpini.
Secondo successive cronache solo due furono i soldati ufficialmente scampati a tale sanguinoso eccidio, cioè appunto i santi oggi venerati, ma un po’ ovunque iniziarono a fiorire leggende su altri soldati che trovarono rifugio in svariate località, ove intrapresero una capillare opera di evangelizzazione per poi subire anch’essi il martirio.
Nel Vecchio Continente se ne contano all’incirca 400, così suddivisi geograficamente: 58 in Piemonte, 15 in Lombardia, 2 in Emilia, 10 in Francia, 325 in Germania, 5 in Svizzera e 2 in Spagna. E questo non è purtroppo che un incompleto e sommario elenco.
Tornando però ad Urso e Vittore, occorre specificare che è stata la loro citazione nell’antica “Passio” di Eucherio a meritare loro la citazione nel nuovo martirologio approvato da Giovanni Paolo II all’alba del terzo millennio. Ma la vicenda è anche oggetto di una storia compresa nel “codex 569” della Stiftsbibliothek di Saint-Gall. Qui si narra che i due compagni di fede trovarono rifugio presso l’antica Salodurum, odierna cittadina svizzera di Soleure. Sorpresi dal governatore Astaco, questi li imprigionò e li fece torturare, ma essi furono miracolosamente liberati.
Poterono così riprendere a dedicarsi alla predicazione della Buona Novella agli abitanti del luogo, ma ciò comportò nuovamente il loro arresto. Furono allora condannati al rogo, ma il fuoco non fece tempo ad attecchire che fu spento sotto l’effetto di una forte pioggia miracolosa. Decisero allora di decapitarli e di gettarli nel vicino torrente Aar.
Ma ecco che i loro corpi presero a galleggiare tenendo tra le mani le loro teste, che deposero sulla riva del fiume. I cristiani del luogo pensarono bene di seppellirli in un luogo segreto, ove solo in un secondo tempo fu dedicata loro una cappella.
In seguito le reliquie di San Vittore furono traslate a Ginevra, su iniziativa della regina di Borgogna Teodosinda e grazie alla principessa Sedeloba, divenuta suor Corona, fece erigere una chiesa in onore del santo in tale città, poi riutilizzata quale tempio calvinista.
Soleure continuò invece a custodire gelosamente i resti di Sant’Urso, da non confondere con il vicino Sant’Orso di Aosta, in una chiesa a lui dedicata e riedificata nel XVIII secolo. Anche qualche
reliquia di San Vittore fu però qui riportata con l’imperversare della Riforma a Ginevra.
E’ in oltre da specificare come il San Vittore oggi in questione non sia assolutamente da confondere con l’altro santo omonimo, veterano della Legione Tebea, commemorato al 22 settembre.
Il presupposto che i due santi, con altri leggendari 66 compagni, abbiano militato nella Legione Tebea ha automaticamente conferito loro la presunta nazionalità egiziana e ciò ha contribuito alla diffusione del culto anche presso la Chiesa Copta, che venera dunque specificatamente non solo San Maurizio ma anche tutti quei suoi leggendari compagni il cui ricordo si è diffuso in un qualche piccolo santuario d’Europa.
L’iconografia relativa ai Santi Urso e Vittore, oltre ad essere solita presentarli con tutti gli attributi tipici dei soldati tebei quali la palma del martirio, la spada, lo stendardo con croce rossa in campo bianco e la Croce Mauriziana sul petto, li raffigura talvolta nell’atto di reggere con le mani il proprio capo distaccato dal corpo a causa della decapitazione subita.
(Autore: Fabio Arduino – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Santi Urso e Vittore, pregate per noi.

*Altri Santi del giorno (30 settembre)
*San

Giaculatoria - Santi tutti, pregate per noi.

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